SCRIVERE NELLA LINGUA DELL’ALTRO

Cosa significa scrivere nella lingua dell’altro? Quali implicazioni estetiche, stilistiche, etiche, culturali stanno dietro alla scelta di adottare una nuova lingua per la scrittura? Gli scrittori che hanno, per cosí dire, traslocato in una lingua diversa da quella d’origine sono molti, basti pensare a Samuel Beckett, Joseph Conrad, Vladimir Nabokov, Milan Kundera, Emile Cioran, Josiph Brodskij, Jack Kerouac, Agota Kristof, Yoko Tawada, Yiyun Li, Amara Lakhous Jhumpa Lahiri solo per menzionarne alcuni.

Agota Kristof, ungherese esule in Svizzera, racconta il suo difficile e lungo apprendistato alla scrittura e all’ apprendimento della lingua francese nel bellissimo libro autobiografico L’Analfabetala voglia di scrivere verrà quando si sarà rotto il filo d'argento dell'infanzia, quando verranno giorni cattivi, e arriveranno gli anni che potrei definire «non amati». Quando, separata dai miei genitori e dai miei fratelli, entrerò in collegio in una città sconosciuta, dove, per sopportare il dolore della separazione, non mi resterà che una soluzione: scrivere. La scrittura dunque che nasce dal dolore, da una perdita, da una spaccatura in questo caso una spaccatura in seno alla famiglia, al luogo degli affetti, e anche al tempo dell’infanzia ovvero il tempo della spensieratezza. Ed è proprio nell’infanzia che Kristof scopre la potenza della parola. Raccontando storie al fratello più piccolo, comprende di avere un potere a sua disposizione. 

In collegio la scrittura è intimistica, tiene infatti un diario in cui riversa la sua sofferenza, il suo distacco, la sua mancata libertà: Allora, in quelle ore di silenzio obbligato, comincio a tenere una specie di diario, invento persino una scrittura segreta affinché nessuno possa leggerlo. Vi annoto la mia infelicità, le mie pene, le mie tristezze, tutto ciò che la sera mi fa piangere sommessamente nel mio letto. 

In Svizzera arriva con un marito e un figlio piccolo, la prima grande prova della Kristof è fare i conti con la lingua della sua scrittura. Nel  cassetto ci sono tanti manoscritti in ungherese ma si rende conto che nessuno attorno a lei parla o legge in ungherese e che sarebbe difficile trovare un traduttore per le sue opere così decide, dopo avere studiato il francese e averlo letto nelle opere dei grandi scrittori, di scrivere nella nuova lingua. Per Kristof è una prova difficile, lei stessa la chiama una sfida. Scrive in francese partendo da un confine di cui lei è consapevole, e ne è consapevole ogni scrittore che approda in età adulta ad una nuova lingua: So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. Tuttavia per Kristof con il francese ha un rapporto conflittuale che esprime il senso della perdita quasi che all’acquisizione del fancese corrisponda la perdita dell’ungherese: Parlo il francese da più di trent'anni, lo scrivo da vent'anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l'aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n'è un'altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna. 

Per Nabokov la lingua era una patria portatile. Azar Nafisi nel suo ultimo libro Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio scrive: quella lingua aveva rappresentato per lui una casa lontano da casa: se poteva scrivere in russo, allora era in Russia, l’antica terra della sua infanzia. Nei lunghi anni di esilio a Berlino e in Francia, mentre pativa la miseria sotto la minaccia crescente del fascismo e della repressione, poteva sempre rifugiarsi nella sua amata “duttile”-come la definiva- lingua russa. Ciò che gli dava la forza di andare avanti era scrivere, scrivere in russo, e non voleva assolutamente perdere questa sua “casa portatile”.

Josif Brodskij, costretto all’esilio nel 1972, racconta il suo rapporto con la lingua madre nel bellissimo saggio Dall’esilio: la condizione dello scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula. E la tua capsula è il tuo linguaggio. […] Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quasi la lingua rappresentasse il cordone ombelicale che ci lega alla vita, un rifugio ma anche un luogo di confinamento. A tal proposito vengono in mente le lettere di Antonio Gramsci, lui che aveva sperimentato il confino durante il fascismo, cercava nello studio delle lingue straniere una via di liberazione, tanto che in una lettera a Carlo del 19 dicembre del 1929 scrive: se anche fossi condannato a morte, la sera prima dell’esecuzione studerei una lezione di lingua cinese.

Tuttavia scegliere di scrivere in una nuova lingua non è sempre la conseguenza di un’esperienza di esilio forzato o di una necessità pratica di avere lettori, mi riferisco in questo caso a quegli autori che scrivono nelle lingue franche coloniali piuttosto che nelle lingue di origine, alcune eccezioni sono autori come Alka Sarogi, scrittrice indiana che scrive in hindi o Ngugi Wa Thiong’o che scrive nella lingua kikuyu. Spesso l’ approdo ad un’ altra isola dell’immenso arcipelago linguistico dell’umanità, è il frutto di una scelta nata da un timore, da un desiderio, da una passione. Così le scrittrici e gli scrittori esofonici di questo tipo sono molti. Beckett ha bisogno di una nuova lingua che lo sleghi dalle regole grammaticali e gli dia maggiore libertà. Conrad riteneva l’inglese una lingua più plasmabile del polacco e nelle sue memorie scrive: Non io ho adottato l’inglese, ma piuttosto è stato il genio di quella lingua ad avere adottato me, tesi ripetuta in una lettera a un amico: questa lingua che io non possiedo, ma mi possiede, affermando senza incertezza che se non avesse scritto in inglese non avrebbe scritto del tutto. Nel caso di Conrad, l’abbandono della lingua paterna, il polacco, aveva anche un significato simbolico di “salvezza” dal naufragio dal suo paese, sotto dominazione russa, che gli riportava in vita solo sensi di colpa, la figura di un padre malato perennemente in lutto, una infanzia solitaria in cui l’unica àncora di salvezza erano i libri, il suo "spazio segreto”. L’inglese rappresentava anche la lingua della libertà in quanto l’Inghilterra rappresentava un modello di valori civili che non poteva riconoscere nel suo paese limitato dall’oppressione zarista. 

Yiyun Li scrive in inglese perché è la lingua che le permette di staccarsi dall’oppressione vissuta in Cina in un contesto storico, culturale, familiare chiuso. Questo l’ha portata anche a non autorizzare la traduzione dei suoi libri in cinese, certa che la Cina non la comprendebbe. In un suo articolo apparso sul New Yorker nel 2016 dal titolo To speak is to blunder, definisce l’abbandono della sua lingua natale una salvezza personale.

Yoko Tawada parte dal Giappone e arriva in Germania nel 1979. Dopo gli studi universitari, comincia a scrivere in tedesco pur mantenendo il giapponese. Interessante è il suo sguardo nei confronti della lingua materna di cui parla in termini ben precisi: anche la propria lingua madre è una traduzione.

Jhumpa Lahiri ha invece scelto l’Italiano spinta da un desiderio profondo, passionale. Scrive nel suo In altre parole: Non avrei un vero bisogno di conoscere questa lingua. Non vivo in Italia, non ho amici italiani. Ho solo un desiderio. Ma alla fine un desiderio non è altro che un bisogno folle. 

La cifra rilevante che spesso emerge dal racconto di chi ha cambiato lingua per la propria scrittura, come nel caso di Beckett, è il senso di libertà che deriva dall’abitare una lingua acquisita in età adulta. Lahiri si interroga su questo mistero: com’è possibile, quando scrivo in italiano, che mi senta sia più libera che più inchiodata? Forse perché in italiano ho la libertà di essere imperfetta. Come mai mi attrae questa voce, imperfetta, scarna? Come mai mi soddisfa la penuria? Cosa vuol dire rinunciare a un palazzo per abitare quasi per strada, sotto un riparo così fragile? Forse perché dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza.

Il senso di libertà cui accenna Lahiri coincide con l’idea che nella lingua materna siamo più disattenti, diamo per scontato di conoscere il segreto delle parole, ci sentiamo protetti da uno scudo forte di regole grammaticali e sintattiche, abbiamo dei punti di riferimento solidi, possiamo adagiarci talvolta a tal punto che la scrittura può risultare piatta, statica. Senza quello scudo siamo vulnerabili ma è la vulnerabilità che ci permette di capire più in profondità, con maggiore cura dei dettagli chi siamo e da quale angolazione vediamo il mondo. 

Similmente per il filosofo Emile Cioran il francese adottivo rappresentava da una parte una limitazione, dall’altra una liberazione: Sì, proprio come la camicia di forza che calma un pazzo. Il francese ha agito su di me come una disciplina, sortendo un effetto positivo. Limitandomi e obbligandomi a non esagerare, mi ha salvato. L’accettazione di una tale disciplina linguistica ha temperato il mio delirio. Pur non essendo una lingua adatta a me, da un punto di vista psicologico mi ha aiutato. Il francese è diventato alla fine una lingua terapeutica.

A volte i  parallelismi tra scrittori esofonici sono molteplici. Sebbene scriva prevalentemente in italiano da undici anni a questa parte, come Tawada, Lahiri non ha completamente abbandonato l’inglese. La differenza sostanziale è che in alcuni casi negli scritti di Tawada, le sue due lingue compenetrano e si incontrano sulla stessa pagina. Memorie di un’orsa polare, ad esempio è stato scritto in contemporanea sia in giapponese che in tedesco, costringendo l’autrice a tradurre dall’una e dall’altra lingua in un’operazione simultanea complessa e non priva di ostacoli per far risultare un testo in cui le due lingue raggiungessero un parametro di corrispondenza. Si potrebbe dire che di questo testo non esiste una reale versione in una delle due lingue ma che si tratti di due testi in traduzione. Un esercizio letterario più di traduzione che di scrittura se non fosse che le due attività non sono estranee l’una all’altra, anche la traduzione è scrittura.

Non lontano dall’esperienza di Tawada è Amara Lakhous, scrittore algerino, naturalizzato italiano, che scrive sia in arabo che in italiano e traduce da sé i suoi libri. Per Lakhous scrivere in lingue diverse rappresenta un atto di ribellione, un modo per rompere i rigidi confini linguistici e geografici.

Lahiri, Tawada e Lakhous oltre ad avere in comune l’essere scrittori esofonici, tutti e tre autotraducono le proprie opere dalla lingua acquisita a quella nativa. Tawada ammette che l’autotraduzione dal tedesco al giapponese, è la strada per imparare un nuovo modo di scrivere in giapponese. Il giapponese è la mia lingua madre e non puoi realmente vedere una lingua madre. Ci sei dentro, talvolta ci sei intrappolata, non selibera da essa. Da quando ho cominciato a scrivere in tedesco ho cominciato a vederla da una certa distanza.

Il rapporto con la lingua, tuttavia, è una questione che pervade anche l’esistenza di personaggi fittizi, quelli nati dall’immaginazione degli scrittori che li hanno creati. Qui gli esempi sono infiniti, ne vorrei proporre quattro: Pnin di Nabokov (Pnin), Max Feber (Gli Emigranti) di G.W. Sebald, Tara (Tradurre, Tradursi) di Anita Desai e Oskar Gassner (Il profugo tedesco) di Bernard Malamud. In tutti e quattro questi scritti, un romanzo e tre racconti, i protagonisti vivono un distacco dalla lingua madre e devono affrontarne le difficoltà che questa esperienza comporta.

Pnin, l’originale professore universitario russo esule negli Stati Uniti, ritenuto uno stravagante dai colleghi, sottostimato e  incompreso, vive in uno stato emotivo e fisico di nostalgia per la Russia e per la lingua russa. Proprio come il suo creatore, Nabokov che definisce una tragedia l’abbandono della lingua naturale.

Oskar Gessener nel racconto di Malamud, è un profugo che si trova in America a dover tenere delle conferenze in inglese. Sebbene stia imparando la lingua con un giovane studente, si rende presto conto dello scoglio della lingua: la perdita dolorosa era la perdita di una lingua, il fatto di non poter esprimere quello che aveva dentro. Hai un pensiero sottile e ti viene fuori come un coccio di bottiglia. Il fatto di poter comunicare diventa una frustrazione perché comunicare non è la stessa cosa che esprimere il sé profondo.

Max Ferber protagonista di una delle quattro storie de Gli Emigranti di Sebald, ragazzo ebreo che vive in Germania agli albori della seconda guerra mondiale, emigra nel Regno Unito per sfuggire alle persecuzioni. Qui c’è una profonda e dolorosa presa di coscienza nel ragazzo: quasi immediatamente si rende conto di non riuscire a ricordare il suo passato, la sua infanzia, perché quel passato appartiene a un’altra lingua. È sconvolgente constatare come al traslocare in una nuova lingua, possa corrispondere la perdita della memoria. Se la memoria, come dice Bergson, è la nostra coscienza, inevitabilmente nel giovane protagonista Max Ferber c’è questa rimozione della coscienza di chi era prima dell’esperienza migratoria. L’emigrazione recide quel legame con la lingua materna. Perdendo contingenza con l’uso quotidiano della lingua, le esperienze vissute in quella lingua vanno anch’esse in esilio, in un oblio involontario.

Nel racconto di Anita Desai, Tradurre, tradursi, la storia vede un triangolo di donne, due ex compagne di scuola che si incontrano casualmente da adulte e una scrittrice che scrive in lingua oriya, Suvarna Devi. Si dà il caso che Tara sia una traduttrice e comincia a tradurre le opere di questa autrice pubblicata dalla casa editrice della ex compagna di scuola, Prema. L’ atto del tradurre stabilisce un legame profondo tra Tara e Suvarna: ci univa come se fossimo sorelle - o addirittura come se fossimo una, due metà compatibili di una scrittrice, tanto che Tara alla fine, diventa lei stessa una scrittrice. Ed è nel processo della scrittura che si rende conto dell'impossibilità a scrivere alcune cose in inglese. La lingua materna appare beccheggiando alla soglia della sua testa e non può non ascoltare quel richiamo urgente così si ritrova a poter raccontare alcune cose solo in quella lingua: c’erano scene che potevo scrivere in inglese, ma altre esigevano di essere scritte nella lingua di mia madre.

Il personaggio di Tara richiama alla mia attenzione nuovamente le parole di Yoko Tawada, che scrive sia in giapponese che in tedesco lo stesso testo, quasi certe zone siano più accessibili in una lingua piuttosto che nell’altra.

Se, tuttavia, volessimo ampliare la riflessione sulla scrittura e prendere a prestito un concetto del filosofo Gille Deleuze riferito agli scrittori postcoloniali e che personalmente ritengo sia un ottimo spunto per chiunuqe scriva anche in una sola lingua, potremmo dire che ogni scrittore dovrebbe poter adottare un approccio alle parole simile a quello dello straniero. Scrivere nella propria lingua da straniero significa prestare maggiore attenzione alle parole, al loro viaggio nella Storia, significa essere aperti a sperimentazioni sottraendo la lingua all’ omogeneità e artificiosità che spesso rischiano di renderla troppo statica e a cui viene condannata dalla troppa certezza. Le variabili sono infinite e sono quelle in grado di rendere una lingua più ricca. Scrivere in una nuova lingua o nella propria, richiede che lo scrittore possa giocare con essa, inventare, dare corpo e forma all’immaginazione, rompere le regole e scoprire nuove possibilità. Si tratta di adottare una nuova postura, un nuovo modo di relazionarsi alla lingua a cui corrisponde inevitabilmente un diverso modo di leggere, interpretare e scrivere il mondo; fare come fa il bambino quando, mescolando i colori sulla tavolozza, ne crea uno nuovo. E’ proprio T.S. Eliot nei Quattro Quartetti a suggerire questa direzione: Per arrivare a ciò che non sapete / dovete andare per una strada che è la via dell'ignoranza. / Per possedere ciò che non possedete / dovete percorrere la via della spogliazione. / Per arrivare a ciò che non siete / dovete attraversare la via in cui non siete. Una direzione per chiunque scriva, in qualunque lingua anche in una lingua unica.

Marzo 2023

Cosa significa scrivere nella lingua dell’altro? Quali implicazioni estetiche, stilistiche, etiche, culturali soggiaciono dietro alla scelta di adottare una nuova lingua per la scrittura? Gli scrittori che hanno, per cosí dire, traslocato in una lingua diversa da quella d’origine sono molti, basti pensare a Samuel Beckett, Joseph Conrad, Vladimir Nabokov, Milan Kundera, Emile Cioran, Josiph Brodskij, Jack Kerouac, Agota Kristof, Yoko Tawada, Yiyun Li, Amara Lakhous Jhumpa Lahiri solo per menzionarne alcuni.

Agota Kristof, ungherese esule in Svizzera,  racconta il suo difficile e lungo apprendistato alla scrittura e all’ apprendimento della lingua francese nel bellissimo libro autobiografico L’Analfabetala voglia di scrivere verrà quando si sarà rotto il filo d'argento dell'infanzia, quando verranno giorni cattivi, e arriveranno gli anni che potrei definire «non amati». Quando, separata dai miei genitori e dai miei fratelli, entrerò in collegio in una città sconosciuta, dove, per sopportare il dolore della separazione, non mi resterà che una soluzione: scrivere. La scrittura dunque che nasce dal dolore, da una perdita, da una spaccatura in questo caso una spaccatura in seno alla famiglia, al luogo degli affetti, e anche al tempo dell’infanzia ovvero il tempo della spensieratezza. Ed è proprio nell’infanzia che Kristof scopre la potenza della parola. Raccontando storie al fratello più piccolo, comprende di avere un potere a sua disposizione. 

In collegio la scrittura è dapprima intimistica, tiene infatti un diario in cui riversa la sua sofferenza, il suo distacco, la sua mancata libertà: Allora, in quelle ore di silenzio obbligato, comincio a tenere una specie di diario, invento persino una scrittura segreta affinché nessuno possa leggerlo. Vi annoto la mia infelicità, le mie pene, le mie tristezze, tutto ciò che la sera mi fa piangere sommessamente nel mio letto. 

In Svizzera arriva con un marito e un figlio piccolo, e la prima grande prova della Kristof è fare i conti con la lingua della sua scrittura. Nel  cassetto ci sono tanti manoscritti in ungherese ma si rende conto che nessuno attorno a lei parla o legge in ungherese e che sarebbe difficile trovare un traduttore per le sue opere così decide, dopo avere studiato il francese e averlo letto nelle opere dei grandi scrittori, di scrivere nella nuova lingua. Per Kristof è una prova difficile, lei stessa la chiama una sfida. Scrive in francese partendo da un confine di cui lei è consapevole, e ne è consapevole ogni scrittore che approda in età adulta ad una nuova lingua: So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. Tuttavia per Kristof con il francese ha un rapporto conflittuale che esprime il senso della perdita quasi che all’acquisizione del fancese corrisponda la perdita dell’ungherese: Parlo il francese da più di trent'anni, lo scrivo da vent'anni, ma ancora non lo conosco. Non riesco a parlarlo senza errori, e non so scriverlo che con l'aiuto di un dizionario da consultare di frequente. È per questa ragione che definisco anche la lingua francese una lingua nemica. Ma ce n'è un'altra, di ragione, ed è la più grave: questa lingua sta uccidendo la mia lingua materna. 

Per Nabokov la lingua era una patria portatile. Azar Nafisi nel suo ultimo libro Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio scrive: quella lingua aveva rappresentato per lui una casa lontano da casa: se poteva scrivere in russo, allora era in Russia, l’antica terra della sua infanzia. Nei lunghi anni di esilio a Berlino e in Francia, mentre pativa la miseria sotto la minaccia crescente del fascismo e della repressione, poteva sempre rifugiarsi nella sua amata “duttile”-come la definiva- lingua russa. Ciò che gli dava la forza di andare avanti era scrivere, scrivere in russo, e non voleva assolutamente perdere questa sua “casa portatile”.

Josif Brodskij, costretto all’esilio nel 1972, racconta il suo rapporto con la lingua madre nel bellissimo saggio Dall’esilio: la condizione dello scrittore in esilio somiglia a quella di un cane o di un uomo catapultato nello spazio dentro una capsula. E la tua capsula è il tuo linguaggio. […] Per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quasi la lingua rappresentasse il cordone ombelicale che ci lega alla vita, un rifugio ma anche un luogo di confinamento. A tal proposito vengono in mente le lettere di Antonio Gramsci, lui che aveva sperimentato il confino durante il fascismo, cercava nello studio delle lingue straniere una via di liberazione, tanto che in una lettera a Carlo del 19 dicembre del 1929 scrive: se anche fossi condannato a morte, la sera prima dell’esecuzione studerei una lezione di lingua cinese.

Tuttavia scegliere di scrivere in una nuova lingua non è sempre la conseguenza di un’esperienza di esilio forzato o di una necessità pratica di avere lettori, mi riferisco in questo caso a quegli autori che scrivono nelle lingue franche coloniali piuttosto che nelle lingue di origine, alcune eccezioni sono autori come Alka Sarogi, scrittrice indiana che scrive in hindi o Ngugi Wa Thiong’o che scrive nella lingua kikuyu. Spesso l’ approdo ad un’ altra isola dell’immenso arcipelago linguistico dell’umanità, è il frutto di una scelta nata da un timore, da un desiderio, da una passione. Così le scrittrici e gli scrittori esofonici di questo tipo sono molti. Beckett ha bisogno di una nuova lingua che lo sleghi dalle regole grammaticali e gli dia maggiore libertà. Conrad riteneva l’inglese una lingua più plasmabile del polacco e nelle sue memorie scrive: Non io ho adottato l’inglese, ma piuttosto è stato il genio di quella lingua ad avere adottato me, tesi ripetuta in una lettera a un amico: questa lingua che io non possiedo, ma mi possiede, affermando senza incertezza che se non avesse scritto in inglese non avrebbe scritto del tutto. Nel caso di Conrad, l’abbandono della lingua paterna, il polacco, aveva anche un significato simbolico di “salvezza” dal naufragio dal suo paese, sotto dominazione russa, che gli riportava in vita solo sensi di colpa, la figura di un padre malato perennemente in lutto, una infanzia solitaria in cui l’unica àncora di salvezza erano i libri, il suo "spazio segreto”. L’inglese rappresentava anche la lingua della libertà in quanto l’Inghilterra rappresentava un modello di valori civili che non poteva riconoscere nel suo paese limitato dall’oppressione zarista. 

Yiyun Li scrive in inglese per non essere letta dalla sua famiglia, una famiglia problematica, tanto da aver vietato la traduzione dei suoi libri in cinese. In un suo articolo apparso sul New Yorker nel 2016 dal titolo To speak is to blunder, definisce l’abbandono della sua lingua natale una salvezza personale.

Yoko Tawada parte dal Giappone e arriva in Germania nel 1979. Dopo gli studi universitari, comincia a scrivere in tedesco pur mantenendo il giapponese. Interessante è il suo sguardo nei confronti della lingua materna di cui parla in termini ben precisi: anche la propria lingua madre è una traduzione.

Jhumpa Lahiri ha invece scelto l’Italiano spinta da un desiderio profondo, passionale. Scrive nel suo In altre parole: Non avrei un vero bisogno di conoscere questa lingua. Non vivo in Italia, non ho amici italiani. Ho solo un desiderio. Ma alla  fine un desiderio non è altro che un bisogno folle. 

La cifra rilevante che spesso emerge dal racconto di chi ha cambiato lingua per la propria scrittura, come nel caso di Beckett, è il senso di libertà che deriva dall’abitare una lingua acquisita in età adulta. Lahiri si interroga su questo mistero: come’è possibile, quando scrivoin italiano, che mi senta sia più libera che più inchiodata?Forse perché in italiano ho la libertà di essere imperfetta. Come mai mi attrae questa voce, imperfetta, scarna? Come mai mi soddisfa la penuria? Cosa vuol dire rinunciare a un palazzo per abitare quasi per strada, sotto un riparo così fragile? Forse perché dal punto di vista creativo non c’è nulla di tanto pericoloso quanto la sicurezza.

Il senso di libertà cui accenna Lahiri coincide con l’idea che nella lingua materna siamo più disattenti, diamo per scontato di conoscere il segreto delle parole, ci sentiamo protetti da uno scudo forte di regole grammaticali e sintattiche, abbiamo dei punti di riferimento solidi, possiamo adagiarci talvolta a tal punto che la scrittura può risultare piatta, statica. Senza quello scudo siamo vulnerabili ma è la vulnerabilità che ci permette di capire più in profondità, con maggiore cura dei dettagli chi siamo e da quale angolazione vediamo il mondo. 

Similmente per il filosofo Emile Cioran il francese adottivo rappresentava da una parte una limitazione, dall’altra una liberazione: Sì, proprio come la camicia di forza che calma un pazzo. Il francese ha agito su di me come una disciplina, sortendo un effetto positivo. Limitandomi e obbligandomi a non esagerare, mi ha salvato. L’accettazione di una tale disciplina linguistica ha temperato il mio delirio. Pur non essendo una lingua adatta a me, da un punto di vista psicologico mi ha aiutato. Il francese è diventato alla fine una lingua terapeutica.

A volte i  parallelismi tra scrittori esofonici sono molteplici, sebbene scriva prevalentemente in italiano da undici anni a questa parte, come Tawada, Lahiri non ha completamente abbandonato l’inglese. La differenza sostanziale è che in alcuni casi negli scritti di Tawada le sue due lingue compenetrano e si incontrano sulla stessa pagina. Memorie di un’orsa polare, ad esempio è stato scritto in contemporanea sia in giapponese che in tedesco, costringendo l’autrice a tradurre dall’una e dall’altra lingua in un’operazione simultanea complessa e non priva di ostacoli per far risultare un testo in cui le due lingue raggiungessero un parametro di corrispondenza. Si potrebbe dire che di questo testo non esiste una reale versione in una delle due lingue ma che si tratti di due testi in traduzione. Un esercizio letterario più di traduzione che di scrittura se non fosse che le due attività non sono estranee l’una all’altra, anche la traduzione è scrittura.

Non lontano dall’esperienza di Tawada è Amara Lakhous, scrittore algerino, naturalizzato italiano, che scrive sia in arabo che in italiano e traduce da sé i suoi libri. Per Lakhous scrivere in lingue diverse rappresenta un atto di ribellione, un modo per rompere i rigidi confini linguistici e geografici.

Lahiri, Tawada e Lakhous oltre ad avere in comune l’essere scrittori esofonici, tutti e tre autotraducono le proprie opere dalla lingua acquisita a quella nativa. Tawada ammette che l’autotraduzione dal tedesco al giapponese, è la strada per imparare un nuovo modo di scrivere in giapponese. Il giapponese è la mia lingua madre e non puoi realmente vedere una lingua madre. Ci sei dentro, talvolta ci sei intrappolata, non selibera da essa. Da quando ho cominciato a scrivere in tedesco ho cominciato a vederla da una certa distanza.

Il rapporto con la lingua, tuttavia, è una questione che pervade anche l’esistenza di personaggi fittizi, nati cioè dall’immaginazione degli scrittori che li hanno creati. Qui gli esempi sono infiniti, ne vorrei proporre quattro: Pnin di Nabokov (Pnin), Max Feber (Gli Emigranti) di G.W. Sebald, Tara (Tradurre, Tradursi) di Anita Desai e Oskar Gassner (Il profugo tedesco) di Bernard Malamud. In tutti e quattro questi scritti, un romanzo e tre racconti, i protagonisti vivono un distacco dalla lingua madre e devono affrontarne le difficoltà che questa esperienza comporta.

Pnin, l’originale professore universitario russo esule negli Stati Uniti, ritenuto uno stravagante dai colleghi, sottostimato e  incompreso, vive in uno stato emotivo e fisico di nostalgia per la Russia e per la lingua russa. Proprio come il suo creatore, Nabokov che definisce una tragedia l’abbandono della lingua naturale.

Oskar Gessener nel racconto di Malamud, è un profugo che si trova in America a dover tenere delle conferenze in inglese. Sebbene stia imparando la lingua con un giovane studente, si rende presto conto dello scoglio della lingua: la perdita dolorosa era la perdita di una lingua, il fatto di non poter esprimere quello che aveva dentro. Hai un pensiero sottile e ti viene fuori come un coccio di bottiglia. Il fatto di poter comunicare diventa una frustrazione perché comunicare non è la stessa cosa che esprimere il sé profondo.

Max Ferber protagonista di una delle quattro storie de Gli Emigranti di Sebald, ragazzo ebreo che vive in Germania agli albori della seconda guerra mondiale, emigra nel Regno Unito per sfuggire alle persecuzioni. Qui c’è una profonda e dolorosa presa di coscienza nel ragazzo: quasi immediatamente si rende conto di non riuscire a ricordare il suo passato, la sua infanzia, perché quel passato appartiene a un’altra lingua. È sconvolgente constatare come al traslocare in una nuova lingua, possa corrispondere la perdita della memoria. Se la memoria, come dice Bergson, è la nostra coscienza, inevitabilmente nel giovane protagonista Max Ferber c’è questa rimozione della coscienza di chi era prima dell’esperienza migratoria. L’emigrazione recide quel legame con la lingua materna. Perdendo contingenza con l’uso quotidiano della lingua, le esperienze vissute in quella lingua vanno anch’esse in esilio, in un oblio involontario.

Nel racconto di Anita Desai, Tradurre, tradursi, la storia vede un triangolo di donne, due ex compagne di scuola che si incontrano casualmente da adulte e una scrittrice che scrive in lingua oriya, Suvarna Devi. Si dà il caso che Tara sia una traduttrice e comincia a tradurre le opere di questa autrice pubblicata dalla casa editrice della ex compagna di scuola, Prema. L’ atto del tradurre stabilisce un legame profondo tra Tara e Suvarna: l’atto del tradurre ci univa come se fossimo sorelle - o addirittura come se fossimo una, due metà compatibili di una scrittrice, tanto che Tara alla fine, diventa lei stessa una scrittrice. Ed è nel processo della scrittura che si rende conto dell'impossibilità a scrivere alcune cose in inglese. La lingua materna appare beccheggiando alla soglia della sua testa e non può non ascoltare quel richiamo urgente così si ritrova a poter raccontare alcune cose solo in quella lingua: c’erano scene che potevo scrivere in inglese, ma altre esigevano di essere scritte nella lingua di mia madre.

Il personaggio di Tara richiama alla mia attenzione nuovamente le parole di Yoko Tawada, che scrive sia in giapponese che in tedesco lo stesso testo, quasi certe zone siano più accessibili in una lingua piuttosto che nell’altra.

Se, tuttavia, volessimo ampliare la riflessione sulla scrittura e prendere a prestito un concetto del filosofo Gille Deleuze riferito agli scrittori postcoloniali e che personalmente ritengo sia un ottimo spunto per chiunuqe scriva anche in una sola lingua: adottare un approccio alle parole simile a quello dello straniero. Scrivere nella propria lingua da straniero significa prestare maggiore attenzione alle parole, al loro viaggio nella Storia, significa essere aperti a sperimentazioni sottraendo la lingua all’ omogeneità e artificiosità che spesso rischiano di renderla troppo statica e a cui viene condannata dalla troppa certezza. Le variabili sono infinite e sono quelle in grado di rendere una lingua più ricca, contrariamente al pensiero della filosofa Hannah Arendt che, in una conversazione con Günter Gaus del 1964, dichiarava: non esistono alternative alla lingua materna. La creatività linguistica viene amputata quando si dimentica la propria lingua.

Scrivere in una nuova lingua o nella propria richiede che lo scrittore possa giocare con essa, inventare, dare corpo e forma all’immaginazione, rompere le regole e scoprire nuove possibilità. Si tratta di adottare una nuova postura, un nuovo modo di relazionarsi ad alla lingua cui corrisponde un diverso modo di leggere, interpretare e scrivere il mondo; fare come fa il bambino quando, mescolando i colori sulla tavolozza, ne crea uno nuovo. E’ proprio T.S. Eliot nei Quattro Quartetti a suggerire questa direzione: Per arrivare a ciò che non sapete / dovete andare per una strada che è la via dell'ignoranza. / Per possedere ciò che non possedete / dovete percorrere la via della spogliazione. / Per arrivare a ciò che non siete / dovete attraversare la via in cui non siete.

NELLA LINGUA DELL’ALTRO

SCRIVERE

Marzo 2023