IL PUNTO CIECO

Si narra non solo dicendo.  |  Nicola Gardini

Parlando della scrittura e delle buone storie Javier Cercas ha scritto un brillante saggio intitolato Il punto cieco” che nasce come testo di una conferenza tenuta all’Università di Oxford che insieme ad altri quattro saggi  è incluso in un volume edito con lo stesso titolo. Cercas, partendo da una teoria scientifica, cerca di spiegare dove risiede la qualità di una grande storia. La teoria scientifica a cui fa riferimento è quella sviluppata dal fisico francese del XVII secolo, Edme Mariotte secondo il quale nei nostri occhi esisterebbe un punto cieco, nella retina, ovvero un punto che non ha i ricettori della luce e attraverso il quale non siamo in grado di vedere nulla. Tuttavia non ci rendiamo conto dell’esistenza di questo punto cieco per due semplicissime ragioni, spiega Cercas, la prima è che il punto cieco dei due occhi non coincide, quindi avendo due occhi la vista dell’uno compensa quello che l’altro occhio non percepisce e viceversa, la seconda è che il nostro cervello riesce sempre a compensare ciò che l’occhio non cattura.

In letteratura il punto cieco corrisponderebbe ad una domanda senza risposta che l’autore lascia in sospeso. Secondo Cercas una buona storia non si prefigge di fornire risposte assolute, certe, irrefutabili, una buona storia dà semmai delle risposte approssimative, paradossali, piene di contraddizioni che solo il lettore può dare. Così come il cervello riempie il punto cieco dell’occhio, permettendogli di vedere dove di fatto non vede, il lettore riempie il punto cieco del romanzo, permettendogli di conoscere ciò che di fatto non conosce, di giungere là dove, da solo, non giungerebbe mai. Lo scrittore è sempre spinto da una domanda a cui cerca di rispondere, e il libro diventa, a suo modo, un tentativo di risolvere quell’interrogativo senza tuttavia mai riuscirci. Questo non dare risposte è per Cercas il grande racconto o romanzo del punto cieco. La risposta la dànno i lettori, con la loro immaginazione ed esperienza. Ecco che si presenta la situazione perfetta in cui l’autore e il lettore creano insieme l’opera, collaborano, dialogano, interagiscono fuori dalla linea spazio-tempo.

La grande letteratura è quella che permette di vedere l’oscurità che è in realtà uno slancio verso la ricerca di un senso dove sembra non esserci. Sebbene Cercas, nel tracciare questo parallelismo tra la teoria scientifica e quella letteraria del punto cieco, citi perlopiù i grandi romanzi della letteratura, da Moby Dick a Don Quijote, da Il Processo a Madame Bovary, l’ho ritrovata in tanti racconti di Hemingway, Malamud, Cekhov, Trevor, Munro, Li per citare solo alcuni autori. L’idea che un romanzo o un racconto del punto cieco è quella in cui l’autore ha pieno rispetto dell’intelligenza del lettore come suggerisce lo stesso narratore del Tristram Shandy di Sterne. 

In un altro saggio lo scrittore spagnolo parla, similmente, dell’arte di saper tacere dello scrittore: alle volte non si tratta di non raccontare, bensì di farlo solo in parte, cioè, raccontare come se la narrazione non fosse del tutto comprensibile, o come se la intravedessimo a malapena attraverso la nebbia. La mancanza che rappresenta il taciuto dell’ autore, è quella sorta di perfezione come la chiama Nicola Gardini - che dà potere al poco e quel poco lo tramuta in tutto. Questo “potere” mi ha fatto pensare alla riga bianca di cui parla Giorgio Manganelli ne Il rumore sottile della prosa. La riga bianca c’è, c’è una mancanza di parole eppure esiste, dice qualcosa, anch’essa va “letta”. Credo sia una metafora della lacuna  “visibile”.

L’idea che la lacuna, il punto cieco rappresentino una porta d’ingresso per l’immaginazione del lettore, mi fa venire in mente il bellissimo racconto Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese contenuto ne Il mare non bagna Napoli. Nel racconto, la piccola Eugenia è affetta da una grave forma di miopia che non le permette di distinguere le cose del mondo che la circonda. Sua zia Nunzia le ha finanziato un paio di occhiali e il giorno in cui li indossa, comincia a vedere un mondo pieno di miserie, diversamente da come l’aveva sempre visto con gli occhi della sua immaginazione. La sua prima reazione al paio di occhiali è un senso di malessere fisico: mal di testa, nausea, vomito che palesemente suggeriscono una lettura metaforica, quasi a dire che il mondo reale è meno bello di quello immaginato. Possiamo così continuare a vedere Napoli, nel caso del racconto della Ortese, attraverso gli occhi ciechi di Eugenia, ovvero la sua immaginazione. Il lettore indossa sì il paio di occhiali forniti dall’ autore, ma essi offrono una visione parziale della realtà, non mettono mai a fuoco tutto il visibile, perché ciò che non riescono a focalizzare, è compensato dalla facoltà immaginativa del lettore che, come diceva Paul Valéry, è colui che fa di un libro un capolavoro: non è mai l’autore a fare un capolavoro. Il capolavoro si deve ai lettori, alla qualità del lettore. Lettore rigoroso, pieno di sottigliezza, di lentezza, di tempo e ingenuità armata."

Marzo 2023

Si narra non solo dicendo.  |  Nicola Gardini

IL PUNTO CIECO

Parlando della scrittura e delle buone storie Javier Cercas ha scritto un brillante saggio intitolato Il punto cieco” che nasce come testo di una conferenza tenuta all’Università di Oxford che insieme ad altri quattro saggi  è incluso in un volume edito con lo stesso titolo. Nel testo Cercas, partendo da una teoria scientifica, cerca di spiegare dove risiede la qualità di una grande storia. La teoria scientifica a cui fa riferimento è quella sviluppata dal fisico francese del XVII secolo, Edme Mariotte secondo il quale nei nostri occhi esisterebbe un punto cieco, nella retina, ovvero un punto che non ha i ricettori della luce e attraverso il quale non siamo in grado di vedere nulla. Tuttavia non ci rendiamo conto dell’esistenza di questo punto cieco per due semplicissime ragioni, spiega Cercas, la prima è che il punto cieco dei due occhi non coincide, quindi avendo due occhi la vista dell’uno compensa quello che l’altro occhio non percepisce e viceversa, la seconda è che il nostro cervello riesce sempre a compensare ciò che l’occhio non cattura.

In letteratura il punto cieco corrisponderebbe ad una domanda senza risposta che l’autore lascia in sospeso. Secondo Cercas una buona storia non si prefigge di fornire risposte assolute, certe, irrefutabili, una buona storia dà delle risposte approssimative, paradossali, piene di contraddizioni che solo il lettore può dare. Così come il cervello riempie il punto cieco dell’occhio, permettendogli di vedere dove di fatto non vede, il lettore riempie il punto cieco del romanzo, permettendogli di conoscere ciò che di fatto non conosce, di giungere là dove, da solo, non giungerebbe mai. Lo scrittore è sempre spinto da una domanda a cui cerca di rispondere, e il libro diventa, a suo modo, un tentativo di risolvere quell’interrogativo senza tuttavia mai riuscirci. Questo non dare risposte è per Cercas il grande racconto o romanzo del punto cieco. La risposta la dànno i lettori, con la loro immaginazione ed esperienza. Ecco che si presenta la situazione perfetta in cui l’autore e il lettore creano insieme l’opera, collaborano, dialogano, interagiscono fuori dalla linea spazio-tempo.

La grande letteratura, secondo Cercas, è quella che permette di vedere l’oscurità che è in realtà uno slancio verso la ricerca di un senso dove sembra non esserci. Sebbene Cercas, nel tracciare questo parallelismo tra la teoria scientifica e quella letteraria del punto cieco, citi perlopiù i grandi romanzi della letteratura, da Moby Dick a Don Quijote, da Il Processo a Madame Bovary, l’ho ritrovata in tanti racconti di Hemingway, Malamud, Cekhov, Trevor, Munro, Li per citare solo alcuni autori. L’idea che un romanzo o un racconto del punto cieco è quella in cui l’autore ha pieno rispetto dell’intelligenza del lettore come suggerisce lo stesso narratore del Tristram Shandy di Sterne. 

In un altro saggio Cercas parla, similmente,  dell’arte di saper tacere dello scrittore: alle volte non si tratta di non raccontare, bensì di farlo solo in parte, cioè, raccontare come se la narrazione non fosse del tutto comprensibile, o come se la intravedessimo a malapena attraverso la nebbia. La mancanza che rappresenta il taciuto dell’ autore, è quella sorta di perfezione come la chiama Nicola Gardini - che dà potere al poco e quel poco lo tramuta in tutto. Questo “potere” mi ha fatto pensare alla riga bianca di cui parla Giorgio Manganelli ne Il rumore sottile della prosa. La riga bianca c’è, c’è una mancanza di parole eppure esiste, dice qualcosa, anch’essa va “letta”. Credo sia una metafora della lacuna  “visibile”.

L’idea che la lacuna, il punto cieco rappresentino una porta d’ingresso per l’immaginazione del lettore, mi fa venire in mente il bellissimo racconto Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese contenuto ne Il mare non bagna Napoli. Nel racconto, la piccola Eugenia è affetta da una grave forma di miopia che non le permette di distinguere le cose del mondo che la circonda. Sua zia Nunzia le ha finanziato un paio di occhiali e il giorno in cui li indossa, comincia a vedere un mondo pieno di miserie, diversamente da come l’aveva sempre visto con gli occhi della sua immaginazione. La sua prima reazione al paio di occhiali è un senso di malessere fisico: mal di testa, nausea, vomito che palesemente suggeriscono una lettura metaforica, quasi a dire che il mondo reale è meno bello di quello immaginato. Possiamo così continuare a vedere Napoli, nel caso del racconto della Ortese, attraverso gli occhi ciechi di Eugenia, ovvero la sua immaginazione. Il lettore indossa sì il paio di occhiali forniti dall’ autore, ma essi offrono una visione parziale della realtà, non mettono mai a fuoco tutto il visibile, perché ciò che non riescono a focalizzare, è compensato dalla facoltà immaginativa del lettore che, come diceva Paul Valéry, è colui che fa di un libro un capolavoro: non è mai l’autore a fare un capolavoro. Il capolavoro si deve si lettori, alla qualità del lettore. Lettore rigoroso, pieno di sottigliezza, di lentezza, di tempo e ingenuità armata."

Marzo 2023