LA PORTA DI MELCHIORRE

Era tarda sera quando K arrivò, Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il piu’ debole chiarore rivelava il grande castello. K sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardo’ su nel vuoto apparente. Franz Kafka, Il Castello

La scrittura nasce da un luogo buio. La metafora per eccellenza della scrittura è forse quella di K. che, nel capitolo iniziale de Il Castello di Kafka, arriva al villaggio e guarda su nel vuoto apparente. Lo scrittore guarda nel vuoto oppure guarda con occhi ciechi.

Quando scriviamo brancoliamo nel buio, siamo nella stanza buia di Henry James: “Lavoriamo nel buio, facciamo quello che possiamo, diamo quello abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione, la nostra passione è la nostra missione. Il resto è la follia dell’arte. O nel mare profondo di Virginia Woolf, ma anche nella selva oscura di Dante o nel bosco buio di Pollicino o Hansel e Gretel o nella foresta intricata di Orlando. Nelle fiabe spesso i protagonisti si ritrovano nel bosco di notte ed è a partire da quella situazione che devono ravvivare i sensi e trovare la strada verso casa, o verso la salvezza. È il procedere della scrittura che a mano a mano illumina, fa luce sulle cose. Baudelaire scrive nella poesia “Corrispondenze”: È un tempio la natura, dove a volte parole, escon confuse da viventi pilastri: e l’uomo l’attraversa fra foreste di simboli che gli lanciano occhiate familiari.

Il viaggio di Dante nell’Inferno, sotto la guida di Virgilio, è un viaggio di illuminazione, che a poco a poco porta alla luce qualcosa. Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura recita l’endecasillabo di Dante all’inizio della Commedia. Dante non potrà “vedere” subito senza aver prima percorso tutto l’Inferno. È lo stesso Virgilio che apparendo alla vista di Dante in cerca di una via d’uscita da quel luogo tenebroso, che gli suggerisce che non potrà uscire se prima non avrà visitato tutto l’Inferno. Questo significa che occorre fare questo viaggio nell’oscurità, nella cecità per vedere.

Quel mezzo del cammin è il punto esatto in cui ci troviamo quando ci apprestiamo a scrivere. Da un punto di vista spazio-temporale siamo in uno spazio TRA. Tra il prima e il dopo, tra il passato e il futuro, tra ciò che ero e ciò che sarò perché inevitabilmente la scrittura è metamorfica, trasformativa, nel nostro cammin cambiamo, mutiamo. Avviene quella che Gramsci chiama una trasformazione molecolare, uno sdoppiamento, come se il vecchio individuo venisse inghiottito (alla fine dell’esperienza) da uno nuovo. Dalla scrittura veniamo sempre trasformati, non siamo gli stessi di quando abbiamo cominciato il viaggio.

Mentre scriviamo nella stanza buia, nella caverna, nel sotterraneo, nella selva, i nostri sensi sono all’erta, dobbiamo cercare punti di riferimento, scorgere i pericoli, farci strada, tracciare un percorso, cominciare a vedere cosa ci sta davanti e attorno per uscirne.

Il poeta Antonio Machado scrive: Viandante non esiste una strada, la strada si fa camminando. Ed è esattamente ciò che avviene per chi scrive. Non esiste una strada già spianata per noi, non esiste una mappa che ci indica la direzione dove andare, è un procedere cieco. La strada si svela mentre si cammina, mentre si scrive.

Se conoscessimo già la strada non esisterebbe che la scrittura meccanica, di ricopiatura. Sarebbe come un’eco, una replica, una riproduzione di un qualche cosa di già esistente ma anche la certezza di vedere la direzione della scrittura fin dal principio, quella dimistichezza, disinvoltura e confidenza possono, come dice Jhumpa Lahiri, creare un’ altro tipo di cecità. Quella cecità che deriva dal sentirsi al sicuro, quasi passivi, senza dubbi, senza incertezze, una cecità dunque pericolosa perché ci fa perdere la capacità di metterci in discussione, di tentare strade più impervie, nuove, inaspettate. Non vedere interamente può illuminare il mondo in modo diverso. Un atto liberatorio che è l’anima della scrittura. Attraverso di essa, anche nel nostro faticoso arrancare per cercare di salire dal buio alla superficie o per portare alla luce ciò che sta sotto o dentro, noi ci liberiamo.

Scrivere è un artificio e in quanto tale si serve dell’immaginazione che nasce innanzi tutto da quei luoghi segreti, nascosti, bui, profondi, invisibili dove risiedono le nostre paure, i nostri sogni, le nostre passioni, le nostre fragilità, le nostre follie più intime e incomunicabili. La scrittura scava, sviscera, smuove, scanala, solleva una materia difficile da definire, da incastrare in una definizione univoca e esaustiva. È la materia che ci permette di disegnare le linee del nostro tracciato per mettere ordine al caos di cui siamo circondati.

Eppure questa cecità che abbiamo quando iniziamo a scrivere, è necessaria, non è invalidante (lo sarebbe forse il contrario perché quando si vede tutto, resta poco margine per immaginare), o forse è una invalidità che ci permette di superarne una più grande che è quella del non scrivere o di scrivere con quella confidenza che non ci permette di guardare “oltre”. La cecità dello scrittore è quella che ci permette di trovare, di trovarci come dice un verso di Giorgio Caproni: Se volete trovarvi, perdetevi nella foresta. Cosí la scrittura, per dirla con Henri Michaux, è un modo per percorrersi.

Alla scrittura si chiede questa fiducia nel non vedere. È quasi un atto di fede nel buio. Come quello che si chiede ad Orfeo cui viene data la possibilità di riportare in vita la sua amata Euridice a patto di non voltarsi indietro nel cammino verso l’uscita dall’Ade, un altro luogo oscuro e buio. Ma Orfeo, sappiamo da Ovidio, trasgredisce a quella condizione impostagli, infatti lui si volta a guardarla e così Euridice muore nuovamente. Cosa era successo ad Orfeo? Pensava di stringere la mano di un’ombra e tale era il suo amore per lei che voleva essere certo che fosse reale in carne ed ossa. L’ atto di fede al non vedere è condizione della scrittura.

È molto interessante il concetto di cecità come un vedere da un’altra prospettiva. A tal proposito la scrittrice Hélène Cixous che, nel corso di un seminario intitolato “La Lingua che verrà” (Barcellona), parla di questo rapporto tra la scrittura e la vista. Anche Cixous sostiene che la scrittura sia uno sguardo in avanti, un tentativo di vedere: scrivere non è forse un gesto, uno sviluppo, un invio di sguardi davanti a me, davanto a sé, per cercare, per cercare di vedere? Lo metto in dubbio perché se esiste un pre vedere al quale bisogna provvedere, la scrittura cerca di provvedere al vedere, d’altro canto, e per me essenziale, ho la sensazione di scrivere sempre nell’oscurità, in una cecità fuorviante, ma che conduce.

Continua Cixous citando uno scritto in cui l’autrice gioca sull’equivoco: “scrivere cieco” e “scrivere cieca”. Il primo con funzione di scrittura cieca e il secondo di scrittura essendo ella cieca. Accecandosi, o di cecità in cecità, si avanza verso qualcosa di promesso come un assestamento, una captazione di più precisa di ciò che si annuncia come qualcosa da vedere o che è desiderabile vedere. C’ è sempre questa struttura doppia nella scrittura, di attrazione e allontanamento che la fa avanzare, che la fa correre precedendo se stessa senza sapere molto bene ciò che potrebbe aspettarla alla fine.

Qui di nuovo il mistero della scrittura, della cecità dello scrittore che non sa cosa troverà alla fine del suo percorso. Quando scriviamo non sappiamo dove andremo. C’è il buio appunto. Interessante è poi il fatto che il vedere e il non vedere siano l’uno il complemento dell’altro e non due opposti, due entità contrastanti: Il vedere e il non vedere non si oppongono, ma al contrario, si completano e sono figure dello stesso movimento... Questa complementarietà fa pensare a un’altra dicotomia: presenza e assenza. Quando pensiamo alla stanza buia, la luce non è assenza di buio, è solo l’altra parte di esso. Per spiegare questa teoria del vedere e non vedere come complementari, Cixious racconta un aneddoto:

Parecchio tempo fa, esattamente nel 1988-89 frequentavo un gruppo di bambini non vedenti. Questi bambini avevano undici, dodici anni, e che soffrivano di una cecità congenita, correavno davanti a me come vere e proprie lepri, e io ero terrorizzata perché pensavo “cadranno si faranno male”. Avevano però una sorta di relazione con lo spazio, che faceva sì che nella loro agilità corrente non gli succedesse nulla di male . E uno di loro – che per di più si chiamava Melchiorre * – ci diceva sempre “cos’è quella porta laggiù?” Allora guardavo in quella direzione e pensavo “ quella porta laggiù? Non vedo nessuna porta!” e gli dicevo in tutta onestà “ non vedo nessuna porta, ma tu vedi una porta?”. Mi diceva di vedere una porta. Lo sapete i non vedenti usano sempre la terminologia dei vedenti: vedono, si vede nella lingua. Mi incuriosì tanto questo vedere che io non vedevo e che loro vedevano. Andai dal mio oculista e gli chiesi se i bambini vedessero e lui rispose che non vedevano assolutamente nulla. Allora mi dissi che “è l’ oculista a non vedere nulla”.

Per l’oculista vedere significava qualcosa che si poteva definire e misurare da un punto di vista scientifico. Mi dissi “ecco vedere impedisce di vedere”. Il bambino vedeva una porta ma siccome era un bambino cieco nessuno credeva che potesse vederla, scientificamente non poteva vederla ma lui la vedeva e questa visione della porta del bambino cieco è la visione dello scrittore. Se possediamo l’arte dello sguardo – perché molti vedenti non vedono e non guardano -che è l’arte della scrittura, siamo sempre in questa aspettativa, in questa condizione dello “sperare di vedere”.

Le parole di Cixous richiamano alla mente Tiresia. Ovidio nell’opera di Callimaco Per i Lavacri di Pallade, racconta di Tiresia che viene punito da Atena per averla vista nuda fare il bagno (senza che lui lo volesse, quindi fu un caso) e per questo lo punì con la cecità. Poi però la madre di Tiresia supplicò la dea e pur essendo quella punizione irreversibile, ovvero non potendogli restituire la vista, gli concesse il terzo occhio, ovvero la vista profonda. Potremmo dire che lo scrittore è come Tiresia, possiede questo occhio che lo aiuta a procedere verso la scrittura, nonostante la sua cecità o meglio grazie alla sua cecità.

Nell’ Edipo a Colono, Sofocle presenta un Edipo esule e vecchio, ormai cieco che entra ad Atene accompagnato dalla figlia Antigone. Antigone è i suoi occhi, ma lui pur non vedendo quando chiede agli ateniesi di incontrare il re Teseo dice ogni cosa che dirò è piena di vista, intendendo la verità. Nel testo teatrale è singolare che Edipo entri in scena dall’ingresso di sinistra, ovvero dalla direzione da cui parte la scrittura. Quindi nonostante la sua cecità, le sue parole sono parole di chi “vede”, indicano la direzione di una sicurezza, della verità.

Similmente a quanto dice Cixous, Lalla Romano che in età avanzata diventa cieca e continua a scrivere, è ancora mossa da questo slancioin avanti. Lalla Romano continua a scrivere, scrive su grandi fogli bianchi con una grafia quasi incomprensibile, e qui una metafora nella metafora. La Romano scrive cieca (come dice Cixous) come se questo procedere sui fogli grandi, cercasse di vedere, di farsi strada verso quella “porta” che il bambino Melchiorre vede e gli altri non vedono.

La cecità è un altro punto di vista dice Lalla Romano nel suo Diario Ultimo. Quindi non si tratta di non vedere, non si tratta di una mancanza, di una lacuna, di un vuoto, di un’ assenza bensì di una possibilità. La possibilità di vedere cosa gli altri non vedono che è il cuore della scrittura, la sua anima profonda.

La grande letteratura è sempre alle prese con il tentativo di vedere, nello slancio dal buio o dalla penombra alla luce. Palomar, nell’omonima opera di Italo Calvino, anch’egli ipovedente, cerca di vedere (e di farsi strada sulla pagina bianca) verbo che, come ricorda Marco Belpoliti nel suo bel saggio L’occhio di Calvino, rimanda alla radice indoeuropea dove l’atto del vedere non è disgiunto da quello di conoscere: vedere è un atto mentale.

Clarice Lispector, in Un soffio di vita, parla del processo della scrittura: tutto quello che qui scrivo è forgiato nel silenzio e nella penombra. Ci vedo poco, non sento quasi nulla. In La passione secondo GH scrive: non sono mai stata capace di vedere senza avere subito bisogno di qualcosa in più del mero vedere....io mi domando: se osserverò l’oscurità alla lente, cosa potrò vedere più dell’oscurità? La lente non dissipa le tenebre, non fa che rivelarle maggiormente. Anche in questo caso Lispector dice che la vista ha bisogno di qualcosa che sta al di là di essa, quindi qualcosa che vive nel buio, nel complemento della luce. Forse in Lispector il suo bisogno di altro rispetto alla vista risponde analogamente alla difficoltà del dire.

Scrive ancora: Ogni nuovo libro è un viaggio. Solo che è un viaggio a occhi bendati per mari mai scoperti prima d’ora – il bavaglio sugli occhi, il terrore dell’oscurità è assoluto. Lispector usa il sostantivo bavaglio (usato tipicamente per coprire la bocca) qui per coprire gli occhi, come se gli occhi “ammutoliti” nascondessero la vista vera. La paura di non poter accedere a quel mare (la scrittura) è la paura di dover accontentarsi della vista per narrare la vita. E senza esitazione continua: occorrerà del coraggio per fare ciò che sono in procinto di fare: dire. Il dire nasce dalla vista, tuttavia esso rischia di svuotare la parola del suo significato. Se la parola crea l’oggetto, quando viene detto (creato) esso diventa “cronaca”, mentre dalla cecità nasce il linguaggio sonnambulo (La passione secondo GH), inconscio, l’immaginazione che non dice ma rappresenta.

È la porta di Melchiorre quella che sta dinnanzi allo scrittore.... sarà la scrittura a permettergli di aprirla e di attraversarne la soglia che separa il qui e il là svelando la luce.

* Dal nome ebraico Mel’kior che significa luce di Dio.

LA CECITÁ DELLA SCRITTURA, UN TENTATIVO DI VEDERE

Marzo 2023

Era tarda sera quando K arrivò, Il paese era sprofondato nella neve. Il colle non si vedeva, nebbia e tenebre lo circondavano, non il piu’ debole chiarore rivelava il grande castello. K sostò a lungo sul ponte di legno che dalla strada maestra conduceva al paese e guardo’ su nel vuoto apparente. Franz Kafka, Il Castello

La scrittura nasce da un luogo buio. La metafora per eccellenza della scrittura è forse quella di K. che, nel capitolo iniziale de Il Castello di Kafka, arriva al villaggio e guarda su nel vuoto apparente. Lo scrittore guarda nel vuoto oppure guarda con occhi ciechi.

Quando scriviamo brancoliamo nel buio, siamo nella stanza buia di Henry James: “Lavoriamo nel buio, facciamo quello che possiamo, diamo quello abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione, la nostra passione è la nostra missione. Il resto è la follia dell’arte. O nel mare profondo di Virginia Woolf, ma anche nella selva oscura di Dante o nel bosco buio di Pollicino o Hansel e Gretel o nella foresta intricata di Orlando. Nelle fiabe spesso i protagonisti si ritrovano nel bosco di notte ed è a partire da quella situazione che devono ravvivare i sensi e trovare la strada verso casa, o verso la salvezza. È il procedere della scrittura che a mano a mano illumina, fa luce sulle cose. Baudelaire scrive nella poesia “Corrispondenze”: È un tempio la natura, dove a volte parole, escon confuse da viventi pilastri: e l’uomo l’attraversa fra foreste di simboli che gli lanciano occhiate familiari.

Il viaggio di Dante nell’Inferno, sotto la guida di Virgilio, è un viaggio di illuminazione, che a poco a poco porta alla luce qualcosa. Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura recita l’endecasillabo di Dante all’inizio della Commedia. Dante non potrà “vedere” subito senza aver prima percorso tutto l’Inferno. È lo stesso Virgilio che apparendo alla vista di Dante in cerca di una via d’uscita da quel luogo tenebroso, che gli suggerisce che non potrà uscire se prima non avrà visitato tutto l’Inferno. Questo significa che occorre fare questo viaggio nell’oscurità, nella cecità per vedere.

Quel mezzo del cammin è il punto esatto in cui ci troviamo quando ci apprestiamo a scrivere. Da un punto di vista spazio-temporale siamo in uno spazio TRA. Tra il prima e il dopo, tra il passato e il futuro, tra ciò che ero e ciò che sarò perché inevitabilmente la scrittura è metamorfica, trasformativa, nel nostro cammin cambiamo, mutiamo. Avviene quella che Gramsci chiama una trasformazione molecolare, uno sdoppiamento, come se il vecchio individuo venisse inghiottito (alla fine dell’esperienza) da uno nuovo. Dalla scrittura veniamo sempre trasformati, non siamo gli stessi di quando abbiamo cominciato il viaggio.

Mentre scriviamo nella stanza buia, nella caverna, nel sotterraneo, nella selva, i nostri sensi sono all’erta, dobbiamo cercare punti di riferimento, scorgere i pericoli, farci strada, tracciare un percorso, cominciare a vedere cosa ci sta davanti e attorno per uscirne.

Il poeta Antonio Machado scrive: Viandante non esiste una strada, la strada si fa camminando. Ed è esattamente ciò che avviene per chi scrive. Non esiste una strada già spianata per noi, non esiste una mappa che ci indica la direzione dove andare, è un procedere cieco. La strada si svela mentre si cammina, mentre si scrive.

Se conoscessimo già la strada non esisterebbe che la scrittura meccanica, di ricopiatura. Sarebbe come un’eco, una replica, una riproduzione di un qualche cosa di già esistente ma anche la certezza di vedere la direzione della scrittura fin dal principio, quella dimistichezza, disinvoltura e confidenza possono, come dice Jhumpa Lahiri, creare un’ altro tipo di cecità. Quella cecità che deriva dal sentirsi al sicuro, quasi passivi, senza dubbi, senza incertezze, una cecità dunque pericolosa perché perde la capacità di mettersi in discussione, di tentare strade più impervie, nuove, inaspettate. Non vedere interamente può illuminare il mondo in modo diverso. Un atto liberatorio che è l’anima della scrittura. Attraverso di essa, anche nel nostro faticoso arrancare per cercare di salire dal buio alla superficie o per portare alla luce ciò che sta sotto o dentro, noi ci liberiamo.

Scrivere è un artificio e in quanto tale si serve dell’immaginazione che nasce innanzi tutto da quei luoghi segreti, nascosti, bui, profondi, invisibili dove risiedono le nostre paure, i nostri sogni, le nostre passioni, le nostre fragilità, le nostre follie più intime e incomunicabili. La scrittura scava, sviscera, smuove, scanala, solleva una materia difficile da definire, da incastrare in una definizione univoca e esaustiva. È la materia che ci permette di disegnare le linee del nostro tracciato per mettere ordine al caos di cui siamo circondati.

Eppure questa cecità che abbiamo quando iniziamo a scrivere, è una cecità necessaria, non è invalidante (lo sarebbe forse il contrario perché quando si vede tutto, resta poco margine per immaginare), o forse è una invalidità che ci permette di superarne una più grande che è quella del non scrivere/o di scrivere con quella confidenza che non ci permette di guardare “oltre”. La cecità dello scrittore è la cecità che ci permette di trovare, di trovarci come dice un verso di Giorgio Caproni: Se volete trovarvi, perdetevi nella foresta. Cosí la scrittura, per dirla con Henri Michaux, è un modo per percorrersi.

Alla scrittura si chiede questa fiducia nel non vedere. È quasi un atto di fede nel buio. Come quello che si chiede ad Orfeo cui viene data la possibilità di riportare in vita la sua amata Euridice a patto di non voltarsi indietro nel cammino verso l’uscita dall’Ade, un altro luogo oscuro e buio. Ma Orfeo, sappiamo da Ovidio, non mantiene fede a quella condizione infatti lui si volta a guardarla e così Euridice muore nuovamente. Cosa era successo ad Orfeo? Pensava di stringere la mano di un’ombra e tale era il suo amore per lei che voleva essere certo che fosse reale in carne ed ossa. L’ atto di fede al non vedere è condizione della scrittura.

È molto interessante il concetto di cecità come un vedere da un’altra prospettiva. A tal proposito la scrittrice Hélène Cixous che, nel corso di un seminario intitolato “La Lingua che verrà” (Barcellona), parla di questo rapporto tra la scrittura e la vista. Anche Cixous sostiene che la scrittura sia uno sguardo in avanti, un tentativo di vedere: scrivere non è forse un gesto, uno sviluppo, un invio di sguardi davanti a me, davanto a sé, per cercare, per cercare di vedere? Lo metto in dubbio perché se esiste un pre vedere al quale bisogna provvedere, la scrittura cerca di provvedere al vedere, d’altro canto, e per me essenziale, ho la sensazione di scrivere sempre nell’oscurità, in una cecità fuorviante, ma che conduce.

Continua Cixous citando uno scritto in cui l’autrice gioca sull’equivoco: “scrivere cieco” e “scrivere cieca”. Il primo con funzione di scrittura cieca e il secondo di scrittura essendo ella cieca. Accecandosi, o di cecità in cecità, si avanza verso qualcosa di promesso come un assestamento, una captazione di più precisa di ciò che si annuncia come qualcosa da vedere o che è desiderabile vedere. C’ è sempre questa struttura doppia nella scrittura, di attrazione e allontanamento che la fa avanzare, che la fa correre precedendo se stessa senza sapere molto bene ciò che potrebbe aspettarla alla fine.

Qui di nuovo il mistero della scrittura, della cecità dello scrittore che non sa cosa troverà alla fine del suo percorso. Quando scriviamo non sappiamo dove andremo. C’è il buio appunto. Interessante è poi il fatto che il vedere e il non vedere siano l’uno il complemento dell’altro e non due opposti, due entità contrastanti: Il vedere e il non vedere non si oppongono, ma al contrario, si completano e sono figure dello stesso movimento... Questa complementarietà fa pensare a un’altra dicotomia: presenza e assenza. Quando pensiamo alla stanza buia, la luce non è assenza di buio, è solo l’altra parte di esso. Per spiegare questa teoria del vedere e non vedere come complementari, Cixious racconta un aneddoto:

Parecchio tempo fa, esattamente nel 1988-89 frequentavo un gruppo di bambini non vedenti. Questi bambini avevano undici, dodici anni, e che soffrivano di una cecità congenita, correavno davanti a me come vere e proprie lepri, e io ero terrorizzata perché pensavo “cadranno si faranno male”. Avevano però una sorta di relazione con lo spazio, che faceva sì che nella loro agilità corrente non gli succedesse nulla di male . E uno di loro – che per di più si chiamava Melchiorre * – ci diceva sempre “cos’è quella porta laggiù?” Allora guardavo in quella direzione e pensavo “ quella porta laggiù? Non vedo nessuna porta!” e gli dicevo in tutta onestà “ non vedo nessuna porta, ma tu vedi una porta?”. Mi diceva di vedere una porta. Lo sapete i non vedenti usano sempre la terminologia dei vedenti: vedono, si vede nella lingua. Mi incuriosì tanto questo vedere che io non vedevo e che loro vedevano. Andai dal mio oculista e gli chiesi se i bambini vedessero e lui rispose che non vedevano assolutamente nulla. Allora mi dissi che “è l’ oculista a non vedere nulla”.

Per l’oculista vedere significava qualcosa che si poteva definire e misurare da un punto di vista scientifico. Mi dissi “ecco vedere impedisce di vedere”. Il bambino vedeva una porta ma siccome era un bambino cieco nessuno credeva che potesse vederla, scientificamente non poteva vederla ma lui la vedeva e questa visione della porta del bambino cieco è la visione dello scrittore. Se possediamo l’arte dello sguardo – perché molti vedenti non vedono e non guardano -che è l’arte della scrittura, siamo sempre in questa aspettativa, in questa condizione dello “sperare di vedere”.

Le parole di Cixous richiamano alla mente Tiresia. Ovidio nell’opera di Callimaco Per i Lavacri di Pallade, racconta di Tiresia che viene punito da Atena per averla vista nuda fare il bagno (senza che lui lo volesse, quindi fu un caso) e per questo lo punì con la cecità. Poi però la madre di Tiresia supplicò la dea e pur essendo quella punizione irreversibile, ovvero non potendogli restituire la vista, gli concesse il terzo occhio, ovvero la vista profonda. Potremmo dire che lo scrittore è come Tiresia, possiede questo occhio che lo aiuta a procedere verso la scrittura, nonostante la sua cecità o meglio grazie alla sua cecità.

Nell’ Edipo a Colono, Sofocle presenta un Edipo esule e vecchio, ormai cieco che entra ad Atene accompagnato dalla figlia Antigone. Antigone è i suoi occhi, ma lui pur non vedendo quando chiede agli ateniesi di incontrare il re Teseo dice ogni cosa che dirò è piena di vista, intendendo la verità. Nel testo teatrale è singolare che Edipo entri in scena dall’ingresso di sinistra, ovvero dalla direzione da cui parte la scrittura. Quindi nonostante la sua cecità, le sue parole sono parole di chi “vede”, indicano la direzione di una sicurezza, della verità.

Similmente a quanto dice Cixous, Lalla Romano che in età avanzata diventa cieca e continua a scrivere, è ancora mossa da questo slancioin avanti. Lalla Romano continua a scrivere, scrive su grandi fogli bianchi con una grafia quasi incomprensibile, e qui una metafora nella metafora. La Romano scrive cieca (come dice Cixous) come se questo procedere sui fogli grandi, cercasse di vedere, di farsi strada verso quella “porta” che il bambino Melchiorre vede e gli altri non vedono.

La cecità è un altro punto di vista dice Lalla Romano nel suo Diario Ultimo. Quindi non si tratta di non vedere, non si tratta di una mancanza, di una lacuna, di un vuoto, di un’ assenza bensì di una possibilità. La possibilità di vedere cosa gli altri non vedono che è il cuore della scrittura, la sua anima profonda.

Palomar, nell’omonima opera di Italo Calvino, anch’egli ipovedente, cerca di vedere (e di farsi strada sulla pagina bianca) verbo che, come ricorda Marco Belpoliti nel suo bel saggio L’occhio di Calvino, rimanda alla radice indoeuropea dove l’atto del vedere non è disgiunto da quello di conoscere: vedere è un atto mentale.

Clarice Lispector, in Un soffio di vita, parla del processo della scrittura: tutto quello che qui scrivo è forgiato nel silenzio e nella penombra. Ci vedo poco, non sento quasi nulla. In La passione secondo GH scrive: non sono mai stata capace di vedere senza avere subito bisogno di qualcosa in più del mero vedere....io mi domando: se osserverò l’oscurità alla lente, cosa potrò vedere più dell’oscurità? La lente non dissipa le tenebre, non fa che rivelarle maggiormente. Anche in questo caso Lispector dice che la vista ha bisogno di qualcosa che sta al di là di essa, quindi qualcosa che vive nel buio, nel complemento della luce. Forse in Lispector il suo bisogno di altro rispetto alla vista risponde analogamente alla difficoltà del dire.

Scrive ancora: Ogni nuovo libro è un viaggio. Solo che è un viaggio a occhi bendati per mari mai scoperti prima d’ora – il bavaglio sugli occhi, il terrore dell’oscurità è assoluto. Lispector usa il sostantivo bavaglio (usato tipicamente per coprire la bocca) qui per coprire gli occhi, come se gli occhi ciechi nascondessero la vista vera. La paura di non poter accedere a quel mare (la scrittura) è la paura di dover accontentarsi della vista per narrare la vita. E senza esitazione continua: occorrerà del coraggio per fare ciò che sono in procinto di fare: dire. Il dire nasce dalla vista, tuttavia esso rischia di svuotare la parola del suo significato. Se la parola crea l’oggetto, quando viene detto (creato) esso diventa “cronaca”, mentre dalla cecità nasce il linguaggio sonnambulo (La passione secondo GH), inconscio, l’immaginazione che non dice ma rappresenta.

È la porta di Melchiorre quella che sta dinnanzi allo scrittore.... sarà la scrittura a permettergli di aprirla e di attraversarne la soglia che separa il qui e il là svelando la luce.

* Dal nome ebraico Mel’kior che significa luce di Dio.

LA CECITÁ DELLA SCRITTURA, UN TENTATIVO DI VEDERE

LA PORTA DI MELCHIORRE

Marzo 2023